Durante i primi secoli di diffusione del Buddhismo il motivo iconografico che rappresenta esclusivamente il Buddha è il vuoto. In varie forme: un semplice trono sotto l’albero del Bodhi dove avvenne l’illuminazione, delle impronte di piedi, uniche tracce a rappresentare un corpo che non c’è più. L’importanza del vuoto nella filosofia Zen è ben nota in Occidente, la sua radice è il concetto di nirvana nella originaria testimonianza del Buddha storico: nulla come luogo di beatitudine e liberazione dal ciclo delle rinascite.

Pascal Convert allestisce, all’ultimo piano del prestigioso Musée Guimet di Parigi, Revoir Bamiyan, una piccola e penetrante mostra che, pur mai citandolo, ragiona sul vuoto attraverso il topos artistico dell’assenza e della memoria omaggiando le monumentali sculture buddhiste di Bamiyan. Il radicale gesto iconoclasta dei Talebani dell’Afghanistan che fecero brillare le due grandi statue l’undici marzo 2001, viene rievocato attraverso una fotografia panoramica installata a seguire la superficie curva di una parete: le gigantesche nicchie vuote – le statue erano alte rispettivamente più di cinquanta e trenta metri – urlano un ricordo.

L’artista giustappone a questa documentazione alcuni frammenti recuperati dal sito e una videoinstallazione sui bambini di Bamiyan e cosa sia l’infanzia oggi nella prossimità di questo importantissimo sito mutilato. Il testo che l’artista ha composto per accompagnare la mostra cita l’associazione con le Torri Gemelle: due icone di una ideologia che ora domina il mondo, come mai il Buddhismo riuscì, fatte crollare esattamente sei mesi dopo. L’associazione dei gesti iconoclasti è convincente, non solo perché frutto della stessa mano e per la monumentalità degli obiettivi, ma anche per gli stessi esiti finali.

Sia le Torri Gemelle che i Buddha sono stati ricordati da installazioni luminose, per perpetuarne la memoria. Ma questo è solo un parallelismo accidentale. Le Torri sono state sostituite dalla Freedom Tower, i Buddha forse verranno ricostruiti dall’UNESCO. Ma né l’ideologia capitalista Occidentale simboleggiata dal WTC né tantomeno la supposta idolatria rappresentata dalle statue hanno vacillato per questa cieca furia cancellatrice.

Ma paradossalmente il gesto dei Talebani ha nel caso di Bamiyan una conseguenza inattesa e ironicamente opposta alle intenzioni. Quello che resta ora nelle nicchie è appunto il vuoto, la forma originaria di rappresentazione dell’arte Buddhista. Quindi non solo la distruzione dei simboli testimonia nel modo più vero l’impermanenza di tutte le cose – cuore della dottrina del Buddha -, ma addirittura richiama e realizza un modo iconografico sepolto da secoli.

Pascal Convert dà vita a una sorta di sobria elegia per il potere dell’arte che permane nonostante la barbara follia distruttrice. Allo stesso tempo il ricordare è una rielaborazione: così lo stesso gesto di cancellare il passato diventa artistico e nega se stesso. Ricreando accidentalmente ancora una volta nella storia la forma originaria con cui il Buddhismo decise di rappresentarsi, l’iconoclastia è vittima della propria accusa. Come colui che idolatra le statue, l’iconoclasta scambia significato e segno, vanamente illudendosi di eliminare il primo rimuovendo il secondo.

Marco Gandolfi Ama l’arte. Prova a condividere l’amore.