Il mistero circa la vera identità personale, singola o multipla che sia, che si cela dietro l’etichetta Banksy ha dato origine alla leggenda metropolitana secondo la quale uno dei membri del famoso gruppo trip-hop Massive Attack sarebbe l’artista che sapientemente usa questa invisibilità. Questa ipotesi – molto probabilmente non corretta – è affascinante perché confermerebbe un tratto essenziale della performance Banksy: la raffinata capacità di usare il dispositivo tecnico della comunicazione massificata, in particolare il segno e la sua ambiguità, sovvertendone i canoni di normalità per attribuirgli un significato nuovo e in genere spiazzante. Così sarebbe estremamente calzante che l’artista fosse già un personaggio “famoso” prima di essere uno street artist, anzi prima di essere una performance appunto, e l’anonimato servirebbe solo a dare prominenza all’arte e non all’artista, priorità su cui è lecito invece dubitare.
La chiave di lettura più efficace, infatti, per capire Banksy pare proprio essere quella performativa in cui tutto – dalle opere alle case d’asta, dalle installazioni ai mass media, dai gossip ai film – va a costituire un proteiforme sforzo artistico che vuole scavare da dentro il postmodermismo occidentale. E facendo ciò creare un’aura di mito e protagonismo attorno all’artista stesso.
L’operazione di scavo avviene su un doppio registro: quello della comunicazione virale, per usare un aggettivo nato sicuramente dopo l’inizio della carriera di Banksy e a lui non riferito, ma assolutamente efficace nel descrivere la sua strategia; e quello del détournement situazionista. Questa seconda tecnica, vagamente traducibile come “appropriazione indebita” o decontestualizzazione, potrebbe essere indicata anche come spiazzamento segnico, in cui appunto un segno viene decontestualizzato e giustapposto a un contesto o ad altri segni mutandone completamente il significato. L’opera di decostruzione del Situazionismo è degna erede del matrimonio ideale tra Dadaismo e Surrealismo, e quindi dei due movimenti che più hanno messo in discussione la modalità “accademica” di fare arte, nel primo caso provando a distruggere le forme e i significati usuali, nel secondo cercando attraverso il lavoro onirico e inconscio nuove associazioni di senso.
La street art di Banksy quindi si inserisce in un filone concettuale che possiamo far risalire a circa un secolo fa con il seminale lavoro di Duchamp.
Il pregio principale della mostra A Visual Protest. The Art of Banksy al MUDEC di Milano fino a metà aprile 2019 è quello di inquadrare l’opera dell’artista in questo grande e rilevante flusso di cui è diventato un importante rappresentate. La corrispondente celebrazione della street art è invece un giusto riconoscimento di una forma forse tra le più innovative degli ultimi decenni che testimonia della sempre rinascente forza dell’arte nell’individuare spazi e modalità espressivi nuovi.
Attraverso un articolato percorso fatto sostanzialmente di stampe e serigrafie, si esaminano le diverse sfaccettature della produzione di Banksy con incursioni sulle ultime ambiziose installazioni di Dismaland e The Walled Off Hotel. La mostra è organizzata per aree tematiche, con un buon ventaglio di opere. La parte più propriamente dedicata alla street art si limita a qualche riproduzione fotografica e una sola opera su muro. Qualunque mostra su Banksy deve porsi il problema di rispettare il contesto in cui le opere nascono e devono vivere, appunto la strada. L’approccio di mostrarle attraverso riproduzioni è forse – pur nella sua limitatezza – l’unico accettabile.
L’analisi dell’artista si concentra sulla dialettica tra arte e potere configurata come scontro continuo tra prevaricazione e libertà, menzogna e verità. Quindi la critica radicale ai sistemi repressivi, siano essi apparati di propaganda, corpi polizieschi o complessi militari industriali. La serie dedicata ai poliziotti e militari il cui volto è sostituito da semplici smiley trasmette al contempo la metodologia dello spiazzamento – usare un segno innocuo e positivo in un contesto che è tutt’altro – e il suo significato di smascheramento: l’apparato di sicurezza è l’opposto del volto sorridente e rassicurante, la sua funzione non è di protezione, ma di minaccia e imposizione di uno standard e un controllo. Il corto circuito mediatico guerra/spettacolo è riassunto alla perfezione nel capolavoro Applause, 2006 dove il caccia che arriva sulla portaerei è salutato non dai soliti gesti necessari alle manovre, ma da un cartello di applausi.
Allo stesso modo il consumismo e il regime di produzione tecnologica e trasformazione iperproduttiva del mondo messo in piedi dalla civiltà occidentale è un bersaglio costante. La sua pervasività è tale da aver raggiunto anche la savana africana come mostra Trolleys, 2006. Gli stessi simboli sacri sono stati spodestati: il denaro è il nuovo dio, non esiste alcun orizzonte trascendente. Al contempo trovare rifugio nell’arte è problematico, sembra dirci Banksy attraverso la sua feroce critica al mercato delle case d’asta e alla mercificazione dell’oggetto artistico.
Eppure proprio qui sta la debolezza più grande del suo messaggio di critica: le serigrafie numerate e timbrate ufficialmente con il suo simbolo fanno venire alla mente più il modello di artista superstar imprenditore di se stesso che il mito dell’indipendente anarchico. Come se non bastasse le pallide copie epigonali dei classici della pop art (in mostra le Kate Moss fatte nello stile delle Marilyn di Andy Warhol e le TESCO Tomato Soup analoghe alle Campbell’s) sembrano facili espedienti per monetizzare un nome e una fama attraverso la vuota citazione di recenti classici.
Il profeta dello spiazzamento riesce al meglio quando purifica al massimo il suo metodo e lo potenzia lavorando per sottrazione. Il suo capolavoro Napalm, 2004 ha l’innappellabilità definitiva del genio. La bambina vietnamita in fuga dal bombardamento al napalm della foto del 1972 di Nick Ut è tenuta per mano da Mickey Mouse e Ronald McDonald. Qui non solo c’è il cortocircuito iconografico del situazionismo ma la radicale analisi politica e ideologica dell’Occidente: le due icone rappresentano rispettivamente la massificazione culturale e quella industriale all’apice del loro successo e della loro innocuità spacciata per bontà. Sono però anche il simbolo dell’imperialismo economico e culturale che si manifesta – appunto – nella guerra. Napalm allo stesso tempo mostra l’usura delle icone, il loro svuotamento di significato che improvvisamente risorge nella giustapposizione.
Come del resto in tutta l’opera di Banksy qui sono attive due forze: quella dell’analisi critica della realtà che informa l’arte e quella dell’elaborazione del significato degli strumenti dell’arte stessa. Pur peccando di protagonismo nella sua invisibilità è probabilmente l’artista che più lucidamente ha descritto e, allo stesso tempo, si è districato dallo scacco dell’assenza del significato nell’epoca dell’ipertrofia dei segni.
A VISUAL PROTEST. The art of Banksy. Mostra al MUDEC Milano dal 21/11/2018 al 14/04/2019.
Marco Gandolfi Ama l’arte. Prova a condividere l’amore.