Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato

– Eugenio Montale

L’installazione di Dan Flavin a Chiesa Rossa

Situate in posizioni quasi opposte sul perimetro urbano di Milano, le chiese di Santa Maria Assunta in Certosa e Santa Maria Annunciata in Chiesa Rossa costituiscono una strana coppia in contrasto e consonanza. Sono sei i secoli che ne separano la costruzione, quasi identici i loro nomi, lontanissimi gli stili architettonici, comune la sedata spiritualità che vi si respira. Se decidere di visitarle lo stesso giorno può essere considerato uno scherzo della casualità, i paralleli su cui riflettere aiutano a scoprire qualcosa di Milano e dell’arte sacra cristiana.

Si potrebbe essere tentati di pensare che questa bizzarra associazione sia una sorta di talismano ideale che guida il visitatore da un capo all’altro della città: partendo da un annuncio per finire con una assunzione. Oppure percorrendolo in senso inverso: una riscoperta di un messaggio sepolto? Il tentativo di recuperare una radice spirituale scavando attraverso strati di folclore? Così ho deciso di partire dalla Certosa per finire in Chiesa Rossa, e riscoprire che forse la modalità originaria dello Spirito – qualunque cosa voglia dire questa parola – è il silenzio.

L’altare della Certosa di Garegnano


Milano ha una bellezza discreta, che pare ritrarsi per passare inosservata, così diversa dalla roboante messinscena di tante città italiane. Non è una questione di valore, solo di stile. Queste due chiese confermano l’attitudine lasciando tracce sottili, irretiscono più che mozzare il fiato; una bellezza umana insomma, che non intimidisce, e quindi forse più accettabile e comprensibile. Allo stesso tempo questa attitudine dovrebbe indicarci qualcosa della spiritualità milanese, a metà strada tra un rigore nordico e riformatore e l’opulenza cattolica.

Santa Maria Assunta è parte della Certosa di Garegnano, antico monastero certosino fondato nel 1349. I secoli e le vicende storiche ne hanno mutato profondamente l’intorno, basti pensare che la chiesa stessa e poco altro sono tutto ciò che è sopravvissuto. Stilisticamente rielaborata nel Cinquecento, ha la bellezza delle migliori sintesi, con un barocco temperato da eleganze rinascimentali – o forse il contrario.
Gli affreschi e le tele di Simone Peterzano attirano verso l’altare maggiore. Su tutto spicca una sublime Resurrezione di Cristo; basta poi alzare lo sguardo per rimanere ipnotizzati dalla volta. La pianta ottagonale si sviluppa in altezza attraverso otto eleganti figure angeliche per chiudersi su un Padre serenamente distaccato. La sensazione che il ciclo decorativo trasmette è quella di tranquilla pacificazione. Un invito al silenzio?
L’invenzione decorativa più seducente della chiesa sta negli altari in scagliola delle due cappelle laterali. La tecnica, che nasce per imitare il marmo usando il gesso come materiale di base, ha qualcosa di miracoloso, e tanto del suo fascino sta nella consapevolezza di questo inganno. Nella modestia del materiale che si trasforma ai nostri occhi in qualcosa  di infinitamente più nobile – anche per gli inevitabili riferimenti che emergono dalla storia dell’arte – troviamo forse l’anima più vera di questa chiesa.

Particolare dell’altare in scagliola

Il trompe-l’oeil è in fondo anche la firma che caratterizza l’esperienza della Chiesa di Santa Maria Annunciata in Chiesa Rossa. Qui l’elemento che spicca è la luce al neon dell’opera Untitled di Dan Flavin. La chiesa, progettata attorno al 1930 in stile neoromanico e terminata nel 1960, ha un aspetto essenziale e austero, privo di indulgenze decorative. L’intervento site specific di Dan Flavin del 1996 è diventato l’elemento più rappresentativo della chiesa e mostra come la creazione di uno spazio architettonico possa avvenire attraverso l’uso della pura luce. Un ragionamento molto simile – per maestria se non per impatto – a quello di Gaudì con la Sagrada Familia. Il dialogo dei colori dei neon e le suggestioni della luce naturale vanno a formare un’unità sorprendente, irretendo anche chi non assegna particolare valore spirituale all’edificio. Lo stesso Flavin fu sempre restio ad attribuire significato religioso alla sua opera, ma almeno un’affinità di fondo va ammessa dato che la sua carriera si conclude proprio qui, in una chiesa, dopo  essere cominciata con l’illuminazione di quadri monocromi intitolati “icone”.

Lontane nei secoli, da parti opposte della città, queste due chiese hanno una strana comunanza, forse la stessa di Milano: una bellezza ricercata e raffinata, non accecante, che sottilmente conquista. Da osservare in silenzio.

Marco Gandolfi Ama l’arte. Prova a condividere l’amore.
Grazie a Irene Buselli per il prezioso aiuto.